figlia maggiore del caso
tenuta insieme da uno sputo
orrore tiepido al risveglio
cotone in gola
non basta una guerra alla strada
alle evidenze naturali, al controllo
a scolare il ventre da una occupazione stabile
la verità è un giaciglio di fortuna
la bocca fertile
il caso nuovo.
la vena scalcia e sudore crolla tra le ciocche
il pianto dell’estate sui corpi mostrati
molte inesattezze accarezzate con una storia
corpi riprodotti, corpi difformi
la carne che chiama, la carne che duole
le vergogne private svestite nel sostizio
seni gonfi e privi di seme
le crepe lucide sul rosa delle gambe scoperte
spazio molle occupato nella dimensione qualunque.
saremo una cosa sola sola con il nulla che rimane
e non avremo pace
perché siamo soli con la nostra poca presenza.
per chiedere perdono ai grumi
l’edera cullata dal buco nell’indice
ha tollerato strette di lacci fermi
scendere o salire la ruota è un canto.
una emissione di suoni come spilli dalle arterie
questa chimica sterrata che acchiappa il vero e lo divora
si chiede senza modi uno specchio
stillicidio di pellicine dalla scatola cranica
un segno impaziente per tracciare una sedazione
non bella, non precisa, non corretta, ma buona.
come a dire non sei sola
le spalline di Grace Jones
i cani stilizzati sui muri
l’assenza di Ghirri
l’inverno è il moto da questo corpo
di una vergogna di peccati da piangere piano
nessun tocco i corpi apparecchiati
e la pelle cancellata e bianca.
rigare dritto negli spazi più alti nella colata del gelo
staccarsi senza pensiero a passo avido
sfocare le ossessioni
restare elemento nel blu elettrico di panno dentro il fumo,
avere tepore.
essere stati cosa o poco oppure vuoto
le fasi nominali non ci somigliano mai
noi non siamo insieme mai
l’abitudine è somiglianza
oppure quelle strade a senso unico.
Estirpare dalle pareti del modo lo specchio
confondersi, scomparire
la realtà non è un caso personale.
cellule seriali tenute insieme da una garza
il raduno della forma a scatti, il rosso nella bocca
numerosi allagamenti, il corso necessario delle nuvole quando il tempo basta
la corsa degli insetti dietro il comodino a voce alta non è una scusa
le stagioni sempre e quella garza, quella pancia deforme, la vita un plastico di cera
senza protezioni senza lacrime senza parentesi.
tieni da conto le mani per quando piove. tieni da conto la bocca per quando c’è il sole. risvegliata la sete, tornerà a stendersi la neve su tutti quei stormi appesi sui muri. stormi di carta, voci di colore, carne mossa, controluce, dai vetri distratti delle cose comuni.
ciascuno rapito le funi per grattarsi la schiena contro le nuvole,
teniamole da conto nel mattino fiacco, gelido torrente nel senso del restare, riposti i bagagli, condotta una abitudine.
prendi nota di me, non più lavagna ma lavanda, stelo temprato.
ti dedico me leggera. i miei volti al guinzaglio. e tutti i colori lavati, dai corpi, nei corpi.
ogni volta la vetta non significa.
vetta è passato veloce e casa feroce.
una macchina di pieghe seriali numeri perpetui nelle stagioni. la fascia no.
i tacchi per sfiancare la crosta di quelli abbisogno, di strappi dalle ciglia alla gola, chimica strenua e puntuale di delicati segni che facciano voltare il capo ai compiti eseguiti nella loro sporta magrezza.
l’osceno è quello che resta delle nostre fasce, dire che è tutto vero questo che no, non è risolto, no, non è compiuto, no, non è lo stesso.
guizzare nella solitudine troppo stretta, più in là.